HARVARD, C'É CHI DICE NO
Trump torna a scuotere le università americane minacciando di sospendere i finanziamenti federali o di revocare le agevolazioni fiscali. Come se non bastasse, ha anche richiesto la consegna degli elenchi degli studenti stranieri annunciando di voler introdurre limiti alla loro ammissione e fare controlli sui corsi e sui docenti. Si è spinto anche a paventare l’intenzione di commissariare alcune attività accademiche messe sotto controllo costante della Casa Bianca.
La sensazione è quella di un’amministrazione insofferente verso una libertà di insegnamento che non si traduca in una chiara affiliazione politica. L’obiettivo è azzerare chi non si schiera fedelmente: il populismo si nutre dell’idea che la cultura non può dare da mangiare ai cittadini, che gli intellettuali sono distanti dai bisogni della povera gente. Il populismo prospera offrendo soluzioni semplici e immediate che non prevedono l’intermediazione di nessuno, tantomeno dei professori. Offrendo così l’illusione ai cittadini di contare qualcosa senza bisogno di nessuno, se non del leader. Del resto, il populismo offre a buon mercato un falso pensiero: che tutto sia facile. Mentre la cultura non lo è affatto. Le università così diventano il nemico ideale da combattere.
Nulla di nuovo né di originale. Al di qua dell’Atlantico, culla della cultura universitaria, la memoria del nostro Paese corre veloce al secolo scorso, quando Mussolini pretese dai professori dell’università italiane di giurare fedeltà al suo regime per “formare cittadini operosi, probi e devoti alla patria e al regime fascista”. Albert Einstein arrivò a scrivere all’allora ministro dell’istruzione di “consigliare al signor Mussolini di risparmiare questa umiliazione al fior fiore dell’intelligenza italiana”. Non tutti i professori italiani si allinearono al regime. Su 1200 solo dodici si rifiutarono di firmare. Opposero una prima forma di Resistenza a quel regime, mantenendo la loro dignità. Persero la cattedra, lo stipendio, la liquidazione e la pensione, ma difesero la loro libertà di pensiero e dei valori nei quali si riconoscevano.
Harvard oggi ci riporta a quella storia di coraggio e se l’America chiude, l'Europa dovrebbe aprire le sue porte a quei professori, cogliendo l'opportunità di una visione di futuro a cui Trump sta rinunciando. Alla Sorbona di Parigi sono stati invitati i ministri e i rappresentanti delle università europee, per un invito corale a ricercatori e docenti statunitensi di scegliere l'Europa. È un segnale politico e culturale, un tentativo di opporsi all’imbarbarimento del sapere. L’Italia al momento ha polemizzato col taglio troppo francocentrico dell’iniziativa, ma resta il punto se l’Europa possa diventare rifugio per chi difende la libertà accademica.
Perché, alla fine, la vera sfida è difendere la libertà di pensiero e il valore della cultura, anche quando il vento sembra soffiare in direzione opposta. Bisogna farlo subito, per le nuove generazioni. E l’Italia, per non dimenticare l’esempio di quei dodici professori, dovrebbe essere in prima fila nella sfida a cui la storia ci sta chiamando.